Decenni di stupore

Decenni di stupore

Sotto il metaforico nome di “Oltrecortina” erano designati gli Stati che, dalla Seconda guerra mondiale fino al 1989, facevano parte del blocco comunista ed erano così chiamati per il confine ideologico “di ferro” che divideva in due parti l’Europa e che concretamente era visibile nel muro di Berlino.

Quando, per motivi di studio, sono stato a Praga, nell’allora Cecoslovacchia, il ricordo di Jan Palach era vivissimo e tra gli studenti universitari si parlava di lui come di un eroe: il 16 gennaio 1969, come torcia umana, aveva voluto attirare l’attenzione del mondo sulla disperazione che viveva il suo popolo. La mia prima sensazione è stata che nella stessa capitale vivessero due mondi uno apparente e ufficiale, l’altro nascosto, ma vivissimo.

La stessa cosa ho sperimentato in Ungheria, dove sono arrivato nel 1980. Le notizie di questi Paesi arrivavano all’Occidente calibrate e controllate… non si era saputo molto del Paese dei magiari, se non per i fatti del 1956. Ero andato a Budapest con una borsa di studio per delle ricerche sulla letteratura infantile e sotto i miei occhi è cominciata a passare una catena di sorprese.

Ciò che è successo dopo ha il sapore di miracolo: possibilità di rimanere in Ungheria non più come studente. Per le traduzioni che avevo fatto mi è stato assegnato un Premio che mi ha permesso di essere conosciuto e di ricevere la proposta di insegnamento all’Università Janus Pannonius di Pécs. Sullo sfondo di una politica manovrata da interessi più che da ideologie, immettere elementi positivi richiedeva libertà e grande responsabilità.

Un giorno in treno, mentre al confine avvenivano gli interminabili controlli delle valigie, guardando fuori dal finestrino vedevo un uccellino che saltava di qua e di là sopra il filo spinato degli steccati di confine e fu naturale chiedermi quanto tempo sarebbero durate quelle barriere. Una frase del filosofo napoletano Giambattista Vico mi diede speranza “Le cose fuori del loro stato naturale né vi si adagiano né vi durano”.[1]

Subito dopo la caduta del muro di Berlino infatti, nel 1989, mi è capitato di tradurre uno studio sociologico sul fenomeno del cambiamento di nomi delle piazze e delle vie di Budapest e della sorte toccata alle statue del realismo comunista gonfie di muscoli e di vittoria, trasferite in un giardino fatto apposta, quasi uno zoo dove portare i bambini la domenica. Qualche stella rossa, per la sua grandezza e il suo peso ha atteso anni prima di scendere in basso.

Dopo 16 anni vissuti in Ungheria sono stato in altri Paesi che erano appartenuti al Patto di Varsavia, come la Slovacchia e la Polonia dove, girando un giorno per il campo di Auschwitz ho capito meglio il perché della mia esistenza ed ho ringraziato Dio di poter concorrere assieme ad altri a fare non solo dell’Europa ma del mondo intero una famiglia.

Mi è sembrata puntuale l’affermazione di Victor Hugo: «Niente al mondo è così potente quanto un’idea della quale sia giunto il tempo».[2]

di Tanino Minuta

[1 ] Giambattista Vico, Opere Vol. I, Tipografia della Sibilla, Napoli, 1834, pag. 12.

[2] http://nuovoeutile.it/222-frammenti-sulla-creativita-a-cura-di-annamaria-testa/ (altro…)

Studiare, vivere, insegnare la storia

Studiare, vivere, insegnare la storia

9 novembre 1989, data indimenticabile della storia recente: crolla il muro di Berlino. Quella sera anch’io mi trovo incollata davanti alla televisione per seguire un evento inaspettato e di cui forse tanti, soprattutto noi giovani, non coglievamo assolutamente la portata.

Sì, certo, avevo studiato a scuola e all’università, laureandomi proprio in storia moderna, gli anni della Guerra fredda e la costruzione di quella cortina di ferro che ora, in quei giorni di novembre, si stava sbriciolando inesorabilmente. Da lì a pochi mesi avremmo conosciuto dai giornali e dai dossier approfonditi la storia dei popoli della Cecoslovacchia, dell’Ungheria, della Polonia, della Romania, i quali, con rivoluzioni più o meno pacifiche, si liberavano dal giogo settantennale dell’Unione Sovietica.

Non avrei, però, mai immaginato, il 9 novembre, che i racconti e le immagini riportate dai media si sarebbero trasformati per me in vita, in persone in carne e ossa che stavo per incontrare sulla mia strada. Era passato, infatti, solo un mese e mezzo e scendevo, alla stazione Keleti di Budapest, da un treno che da Roma, attraversando Slovenia e Croazia, mi aveva portato in Ungheria. Mi avevano, infatti, offerto un posto di insegnante di italiano e storia in un liceo della capitale. Quella sera di dicembre, nell’atmosfera fumosa dello scalo ferroviario, un gruppetto sparuto di persone ad accogliermi, larghi sorrisi e un mazzetto di fiori. Quale contrasto con la scena che mi attendeva sul piazzale: alcuni grossi camion vomitavano sul selciato decine di soldati sovietici. Sì, questo fu il mio primo impatto con un Paese dell’Est: persone normali, che riconobbi subito come di famiglia, immerse in un’atmosfera grigia e sospettosa, con i chiari segni di un “controllo” ancora in atto, pur essendo stata proclamata nell’ottobre 1989 la nascita della Repubblica di Ungheria (dovevano passare, però, un paio d’anni perché l’ultimo militare con la stella rossa sul berretto lasciasse il Paese per sempre).

I primi mesi di “libertà” costituivano una fase di transizione, sia in ambito politico sia sociale: mentre il governo democratico compiva i primi passi e doveva persino fare i conti con gli scioperi (!), i negozi lentamente presentavano una varietà di prodotti, qualcuno proveniente dall’estero. La vita quotidiana era ancora complicata, almeno per me occidentale. A casa stilavo un certo menù, un altro paio di maniche era poi trovare gli ingredienti al mercato! Un giorno, nel 1990, i tassisti e gli autotrasportatori bloccarono tutti i ponti sul Danubio per protestare contro il rincaro della benzina. Subito si formarono file interminabili per comprare il pane e i piccoli empori furono svuotati di tutto. «È come nel ’56» – sentii dire da qualcuno al mercato, sottintendendo: quando mancava il pane. In fondo la gente non riusciva ancora a credere che il peggio fosse veramente passato.

Che qui si trattasse di tutta “un’altra storia” mi divenne ancora più chiaro quando cominciai a insegnare. Non solo non avevo i libri di testo, perché quelli esistenti riportavano una versione dei fatti vista dall’occhio… di Mosca e dell’ideologia della lotta di classe. Ma mi trovavo a spiegare ai miei innocenti studenti cose per me ovvie. L’episodio più lampante lo vissi alla vigilia di Natale del 1990. Per fare conversazione in italiano, si stava parlando delle varie tradizioni natalizie del Bel Paese. Naturalmente spesi parole entusiastiche sulle rappresentazioni della Natività e sul presepe, centro di ogni famiglia italiana in quei giorni. Parlavo da più di mezz’ora, quando una brunetta, dagli ultimi banchi, alzò la mano e mi chiese: «Professoressa, ma chi è Gesù?».

di Maria Bruna Romito (altro…)

I Balcani visti da un “napoletano”

I Balcani visti da un “napoletano”

Raccontare più di dieci anni tra Slovenia, Croazia e Romania non è facile.

Posso dire che mi sono trovato subito bene. L’impatto iniziale con la Slovenia è stato impegnativo, perché quel popolo era completamente diverso dal mio. Non conoscevo la lingua, il clima era molto freddo, era caratteristico l’odore del carbone che bruciava nelle stufe delle case. Mi hanno colpito subito un senso di ordine e disciplina. Ricordo che una sera con un amico della comunità c’eravamo fermati davanti ad un chiosco per comprare della frutta. Lui si era messo in fila, mentre io mi ero spostato di lato. Ad un certo punto mi accorgo che dietro di me si era formata una fila… Mi sono presto accorto che lo stesso avveniva anche quando si doveva salire sugli autobus. Questo mi ha impressionato molto favorevolmente.

Dopo 5 mesi mi sono spostato in Croazia. Un senso di libertà: ormai iscritto all’Università per imparare la lingua, potevo incontrare persone, girare per la città e tante altre cose, prima impossibili. Nei croati ho scoperto un popolo molto vicino al mio: solare, cordiale, accogliente e amante della buona tavola.

La caduta del Muro

Questa è stata un’esperienza indimenticabile, vissuta momento per momento con i miei amici e tanti altri, davanti alla televisione: stavamo assistendo al mondo che cambiava!

La guerra

La guerra nei Balcani è stata tra le esperienze più forti: una sensazione un po’ strana, perché a Zagabria, dove vivevo, non eravamo direttamente coinvolti nel conflitto. Solo nel corso dei primi giorni ho vissuto momenti di terrore per i colpi dei cecchini che sparavano da ogni lato, a caso, sulla popolazione. Nonostante ciò, quello che più mi rimane di quegli anni di guerra non sono state le città o i paesi distrutti, ma la solidarietà che si è creata tra le persone. Assistere all’arrivo di camion pieni di cibo, di capi di vestiario, etc. è stato commovente. Ed io stesso a Napoli, visto che erano morti i miei genitori, ho letteralmente svuotato con alcuni giovani l’appartamento di famiglia e trasportato l’intero carico in Croazia.

Ricordo ancora che nel 1993, nel bel mezzo della guerra, riuscimmo ad organizzare un festival di giovani, circa 3.000: cattolici, ortodossi, musulmani, provenienti da Jugoslavia, Romania, Bulgaria e Moldavia. Molto emozionante fu proprio un canto eseguito da un coro di giovani musulmani! L’evento venne ripreso da radio e televisioni: il giorno dopo la notizia campeggiava in prima pagina su tutti i giornali della capitale.

La Dacia (Romania)

In questo Paese ho sperimentato quello che vuol dire passare da una situazione di quasi benessere ad una di indigenza. Il comunismo – questa, la sensazione – era riuscito a distruggere tutta la storia culturale, civile e popolare di quella Nazione. Per me fu uno shock! Con un giovane che conoscevo di vista, e che mi aveva chiesto dei soldi: in quel momento non ho potuto aiutarlo, perché non avevo con me la cifra che mi chiedeva. Poi la domanda a me stesso: Perché ha chiesto proprio a me? E la risposta: Perché lui sa che sono italiano e immagina che in qualsiasi momento io posso tornare da dove sono venuto. La vera povertà è la sensazione di non avere proprio niente e di non avere dietro le spalle chi “ti può aiutare”.

Anche in Romania ho fatto l’esperienza della condivisione profonda, incontrando sorelle e fratelli che aspettavano qualche cosa che desse finalmente senso alla loro vita: l’Amore! E con tanti di essi, come prima in Slovenia e poi in Croazia, continuano ancora oggi rapporti di fraternità.

di Gennaro Lamagna (altro…)

Sempre più verso l’Est

Sempre più verso l’Est

Rossiya mon Amour  

Mosca 1991. È inverno. Nel primo pomeriggio il mio aereo atterra all’ aeroporto di Sheremetevo.

La sala d’arrivo è scarsamente illuminata, la coda al controllo passaporto e visti sovrafollata. Ho trovato lavoro presso la nota Università Lomonossov e con tutte le mie cose mi sono trasferita in Russia. Fuori è già buio e in qualche modo ho l’impressione che qui il mondo sia definitivamente finito. Poi gli annunci: Voli di collegamento per Novosibirsk e Krasnoyarsk. Intuisco: Sembra che sia proprio da qui che tutto incomincia.

La magia dell’inizio

Vivo in una piccola comunità ecumenica. Il nostro appartamento si trova in strada Volocaevskaya, situato in un quartiere di lavoratori. Al primo sguardo mi sembra un ambiente poco affidabile. Ma alla mia domanda perché non ci trasferiamo – come tutti gli stranieri – sul terreno sicuro dell’ambasciata, mi spiegano: “Non preoccuparti! Qui ci protegge il proletariato.”

Infatti, il contatto con i nostri vicini è spontaneo: le donne anziane, sedute quasi giorno e notte nel cortile, sanno esattamente chi arriva, con chi e a che ora, chi va e dove va; con la loro spontaneità i bambini mi fanno dimenticare la puzza e lo sporco del giroscala. Alla Volocaevskaya i nostri nuovi amici vengono volentieri, colleghi e studenti, anziani e giovani. Non li disturba nel nostro appartamento ammobiliato il divano rosicchiato dai topi e che un tubo sul corridoio perde acqua. L’inizio della nostra profonda amicizia ci immerge in una luce abbagliante e intanto fa dimenticare tutto il resto.

I “figli spirituali” di Alexander Men

All’inizio degli Anni ’90 la produzione in Russia continua a diminuire rapidamente. I negozi sono vuoti, manca tutto. La vita religiosa sembra essere estinta. Dietro le mura delle chiese si trovano una fabbrica di vodka, un ufficio, un negozio …

Già da tempo conosciamo il sacerdote russo ortodosso Alexander Men. Dagli Anni ’60 lui battezza clandestinamente migliaia di persone e mostra un’apertura ecumenica che in quei tempi non è senza pericolo. Intorno a lui si forma una comunità viva di cristiani ortodossi. Quando P. Alexander viene ucciso crudelmente, lascia i suoi “figli spirituali” come orfani traumatizzati.

“Dove due o tre sono riuniti nel mio nome” (Mt 18,20)

Presto molti di loro si uniscono a noi. Cominciamo a vivere insieme la parola della Scrittura, ad es., “Dove due o tre sono riuniti nel mio nome, ivi sono in mezzo a loro” (Mt 18, 20). Come loro dicono, trovano tra noi una nuova patria. “Voi non vi impegnate a fare proselitism, ma ci aiutate a diventare fermento per un auto-rinnovamento della Chiesa russo-ortodossa.” Dopo decenni di siccità spirituale stiamo vivendo con loro e molti altri una nuova primavera. Io sono felice come mai prima. La sete di una vita spirituale in comunione unisce noi, che siamo così diversi per cultura, educazione e mentalità.

La mia scoperta

Negli anni ’90 –  con perestroika e glasnost – nei Paesi dietro la “Cortina di Ferro” entrano sempre più organizzazioni, sette, ma anche aiuti delle varie Chiese (Renovabis, Kirche in Not, Bonifatiuswerk,…) e Movimenti religiosi (Comunione e Liberazione, Neocatecumenali, Focolari, Comunità di Sant’Egidio,…). Alcuni rimangono, tanti nel frattempo se ne sono andati.

La mia esperienza personale come tedesca della Germania Ovest dopo quasi due decenni in Russia? Da questo Paese ho ricevuto infinitamente più di quanto potrò mai dare: tra l’altro, il raccoglimento durante la ricca Liturgia ortodossa russa, dove il mio rapporto con Dio si è fatto più profondo; e le amicizie solide che continuano a distanza e mi mostrano quanto sono amata. Ho riscoperto la mia vocazione di cristiana e donna: sono chiamata per amare. In questi anni, credo, abbiamo riscritto a modo nostro gli Atti degli Apostoli. Il “vedete come si amano a vicenda e hanno tutto in comune” (cfr. Atti 4, 32) ci ha segnati, modellati. Visto così, lo capisco in modo tutto nuovo: il Vangelo va molto più lontano … ben oltre Novosibirsk e Krasnoyarsk!

di Beatriz Lauenroth

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